AVVENTURE IN QUOTA



Sei teste di … Valpelline.


Data di pubblicazione: 15 dicembre 2014
Scritto da: Luca Bausone
Massi detto “Captain Crash”, provetto alpinista e grande organizzatore di cordate, è in fantastica vena organizzativa e smanioso di lanciarsi alla conquista di qualche vetta valdostana insieme ad un folto gruppo di parenti in villeggiatura estiva; si preannunciano due giorni di bel tempo e, dopo un consulto tra partecipanti alla gelateria di Morgex, decidiamo per la Tete de Valpelline. E’ un’ottima scelta, non particolarmente difficile è comunque una vetta con un panorama fantastico sulla vicinissima Dent d’Herens e sul Cervino; c’è un po’ di tutto sul facile, un lungo avvicinamento al rifugio Aosta attraverso un selvaggio vallone, la scalata di un ripido colle attrezzato con catene, attraversamento di un facile ghiacciaio comunque crepacciato e seraccato, insomma, c’è da divertirsi. E’ fatta, scatta l’operazione e l’allegra combriccola è formata da:
Massi detto “Captain Crash”
Federico detto “Koala”
Luca detto “Macchia Nera”
Andrea, fratello di Massi, in seguito soprannominato “Salterello”
Stefano, cugino di Massi
Francesco, fratello di Stefano il “Barzellettiere”
Raggiungiamo in tarda mattinata la Diga di Place Moulin e, dopo rapido controllo del materiale, partiamo lancia in resta in direzione del remoto Rifugio Aosta; i primi 6 km del percorso costeggiano le acque turchesi del lago che, vista la freschezza fisica dei partecipanti alla gita, ispira la nostra vena poetica e fotografica ma che al ritorno ispirerà ben altri sentimenti meno nobili. Arriviamo al Rifugio Prarayer per una breve sosta e poi proseguiamo per il lungo vallone verso la bastionata sulla quale si trova il Rifugio Aosta, sotto il tormentato ghiacciaio di Tsa de Tsan; il fratello di Massi si distingue subito per l’ottima forma fisica e l’elasticità, balzella da un sasso all’altro molleggiando incredibilmente, sembra il “Tiramolla” dei fumetti; dopo l’ammirazione iniziale ispira il nostro istinto “venatorio”, fossimo dotati di fucili da caccia cercheremmo di abbatterlo, meglio così. Nel mentre Francesco, barzellettiere di fiducia del gruppo, rende la salita più gradevole con una gragnuola di battute e freddure degne di Pieraccioni. Facciamo molti chilometri e non molto dislivello e arriviamo alla bastionata sotto il rifugio; è attrezzata con catene un po’ vetuste che non ispirano proprio una gran fiducia, ci armiamo di coraggio e iniziamo a salire opportunamente attrezzati con pannoloni da incontinenza. Salterello Andrea sale agile come uno stambecco, il fratello Massi lo osserva atterrito e sbianca più volte, il terreno è friabile e le catene, come già detto, sono un ciarpame arrugginito per cui la progressione non è delle più agevoli. Arriviamo alla fine della ferrata con Massi sfigurato dalla tensione, Salterello Andrea in perfette condizioni e il resto del gruppo un po’ provato ma ancora in condizioni decenti; la salita comunque è stata lunga per cui arriviamo al rifugio nel tardo pomeriggio e con un discreto appetito.
















La serata è splendida e dopo una buona cena nel piccolo ma confortevole rifugio, scatta una sessione fotografica da sogno, con tanto di stelle cadenti e polvere di stelle. Per la cronaca nella semplice ma ottima cena si distingue una zuppa d’orzo da buongustaio e copiosa che noi sorbiamo con grande piacere e in quantità industriale e le cui conseguenze si faranno sentire nel prosieguo del racconto. Le prime avvisaglie della turbolenza in arrivo si hanno alla fine della sessione fotografica e purtroppo, non essendo su un aereo, nessuna hostess ci avverte di allacciarci le cinture. Inizialmente il rumore dei crolli dei seracchi del vicino ghiacciaio nascondono l’incresciosa situazione ma poi diventa tutto più chiaro. Stiamo per rientrare al rifugio quando sentiamo un frastuono prolungato e strano, passa qualche secondo e se ne sente un altro. “Stanno cadendo dei piccoli seracchi” dice Macchia Nera, ma si sta sbagliando, e anche di grosso. In realtà qualche seracco sta crollando, ma all’interno dei nostri intestini. La zuppa, ingerita in quantità pantagrueliche, deflagra nelle nostre povere interiora, è un concerto di flatulenze degno della mitica scena del film comico “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, cambia solo la zuppa che in quel caso era di fagioli. E’ una battaglia anche di tonalità musicali e anche di strumenti, ognuno dà il suo fantasioso apporto; prolungate e in crescendo, brevi e tonanti, lunghissime e con un fischio impercettibile (che tecnicamente vengono chiamate “loffe”), insomma il repertorio è vasto; rientriamo al rifugio per una nottata ancor più indimenticabile della sessione fotografica. Per fortuna il rifugio è poco frequentato, i pochi avventori ci maledicono; fossimo stati in un rifugio più gettonato ci avrebbero allontanato in malo modo e forse saremmo anche stati processati e poi “infoibati” nei profondi crepacci del ghiacciaio per punizione. Le finestre sono tenute rigorosamente aperte per evitare una drammatica “autogassificazione”, per fortuna ci svegliamo alle 4 del mattino per cui il calvario dura relativamente poco, siamo provati ma comunque motivati per la lunga giornata che ci aspetta. Dopo una ricca colazione consultiamo il percorso che ci dovrà portare prima al Col de la Division attraverso una lunga pietraia e poi alla Tete de Valpelline, dopo aver risalito un tratto del ghiacciaio. Fuori è ancora nero come la pece ma iniziamo a salire con le frontali cercando di seguire l’esile traccia del sentiero. Il silenzio della montagna è spesso interrotto dalle flatulenze che continuano incontrollate, stare in scia di un compagno è operazione altamente malsana e pericolosa per cui procediamo faticosamente in ordine sparso sulla pietraia. Massi è in testa, pure lui a propulsione posteriore, la pietraia è veramente enorme; ci spostiamo sul lato sinistro dove dovrebbero esserci le catene del colle ma le catene non ci sono, partono le imprecazioni intervallate come sempre dalle scoreggie. Dopo un duro ravanamento ritorniamo sui nostri passi e troviamo le introvabili catene, eravamo rimasti troppo alti per cui ce le eravamo perse, forse troppo intenti a sopravanzare i compagni per evitare le odorose scie… Dopo una breve sosta parte Macchia Nera, prescelto non per caso per la sua comunque scarsa attività intestinale; mentre sale in effetti scoreggia molto poco ma non è dotato di passo “leggero” e stacca praticamente un pezzo di montagna che si incanala e si deposita fragorosamente sulla pietraia. Le catene sono nuove di pacca e ispirano fiducia, il terreno molto meno; è friabilissimo e il sentiero attrezzato sale per un canale molto stretto per cui ogni sasso che si stacca precipita rimbalzando tra le sue pareti senza possibilità di fuoriuscita. Le bestiemme si sprecano e, in aggiunta, la paura alimenta l’attività petomane dei partecipanti per cui l’epiteto “colle di merda” in questo caso assume una curiosa “bivalenza”.













Arriviamo al ghiacciaio un po’ provati ma integri, parte la cordata a sei. Capitan Massi estrae la corda dal sacco e chiede fiducioso al gruppo “per imbrago e nodi siete tutti capaci?” e ottiene una risposta da tutti all’unisono e anche un po’ stizzita “Certamente!!” E’ una cordata di vili mentitori, Koala e Macchia Nera, dopo un lungo armeggiare, si sono incrociati imbraghi e moschettoni e risultano saldati insieme come due siamesi, Francesco lega l’imbrago ad una roccia sporgente e si infila in moschettone nel naso, come nelle tribù amazzoniche, Salterello Andrea mentre s’incorda salta furiosamente da un sasso all’altro legandosi come un salame. Massi e il cugino Stefano, dopo aver liberato i compagni imprigionati, riescono finalmente ad allestire una cordata coi controcazzi per cui partiamo con decisione verso la vetta. Il ghiacciaio è semplice ma prevede l’attraversamento di qualche crepaccio, per fortuna piuttosto chiuso e il passaggio in prossimità di Seracchi alti come grattacieli che, in caso di sbriciolamente, ci trasformerebbero in 6 polpette di carne trita. Per fortuna tengono (se no non saremmo qui a scrivere queste puttanate). Nella sosta post seracchi, Macchia Nera lascia cadere un piccolo tubetto di crema solare che una volta sul ghiacciaio sembra avere vita propria; inizia a scendere prima lentamente e poi in accelerazione, Stefano a fine cordata cerca di acciuffarlo ma lui fa una finta stile Van Basten mandandolo a vuoto e poi, dopo essersi fatto metà del ghiacciaio, si suicida in un lontano crepaccio. Ci tocchiamo le parti intime (e non tra di noi comunque, non fraintendete) per scongiurare una simile fine; è stata una libera scelta del tubetto schiantarsi in quel modo, contento lui…Si prosegue allegramente verso la cima cantando allegramente come i nani di Disney ( anche se purtroppo sprovvisti di una Biancaneve), Francesco nel frattempo è un delirio di freddure. La cima è super panoramica e fronteggia la Dent d’Herens e il Cervino, la giornata è radiosa per cui scattiamo una quantità industriale di fotografie prima di intraprendere il lunghissimo rientro. Ridiscendiamo il ghiacciaio senza problemi e il franoso colle con qualche problema in più e dopo la pietraia ci fermiamo all’ Aosta per una salutare pausa; l’aria al suo interno è ancora irrespirabile, i nostri peti si sono avvinghiati alle pareti come patelle, occorrerà arieggiare parecchio per sgretolarli. Scendiamo per l’interminabile vallone, Salterello non ha perso la verve e balzella da una roccia all’altra sotto lo sguardo preoccupato del fratello Massi mentre Francesco ha ancora qualche barzelletta da sfornare. Arriviamo a Prarayer provati e ci aspettano 6 lunghissimi chilometri lungo lago. Ora l’acqua turchese del lago non ispira più la nostra vena poetica, i piedi fumano e arriviamo al parcheggio in stato comatoso. Siamo provati ma felici, è stata una bellissima gita per cui ci ripromettiamo un bis a brevissimo ad una sola condizione: saltare le zuppe dei rifugi.






















La scheda di questa bellissima alpinistica "flinstoniana" la trovate QUI.

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